Silvio Talamo - "Non c'è bisogno di essere supereroi della scrittura, meno ancora della vita"
Per me la poesia è un atto performativo, oltre che squisitamente letterario. William S. Burroughs diceva che l’importante nell’arte è far si che accada, anche quando in solitudine aggiungerei. Viviamo un tempo di saturazione percettiva e di desideri indotti: le immagini e i messaggi si accavallano, il linguaggio diventa consumo immediato. La parola poetica è per me un varco ancora aperto. Un atto di resistenza visionaria, pulsiva, se non meditativa perché mi aiuta a fare assorbire quei processi, quelle maschere prodotte da un tempo storico che sta finendo. Siamo sempre attraversati da processi. Probabilmente il maestro Dogen, grande illuminato zen, ne sarebbe contento. In fondo, anche la meditazione lavora con la mente, e sulla mente — così come le poetiche del flusso, anche se su versanti contrapposti.
Cosa pensi che sia un poeta e che funzioni pensi che abbia nella società?
Il poeta non ha un compito pedagogico o morale. È, piuttosto, una forma di coscienza laterale. Non c’è bisogno di essere supereroi della scrittura, meno ancora della vita: sarebbe solo un’ulteriore spinta alla sua virtualizzazione. Forse il concetto di rivoluzione ha fatto il suo tempo; resta quello di alchimia — anche del verbo — di trasformazione. Non c’è neppure bisogno di “essere poeti”, semmai di accedere alla poesia come a uno degli ultimi spazi ancora aperti del simbolico. Abbiamo bisogno di radar che captino ciò che normalmente fugge via, di fenditure, di piccole crepe nel pensiero normativo. Anche se la lotta è quasi impossibile e il risultato può accogliere poetiche persino opposte, il gesto resta.
Come una persona che fa anche musica, quale è la relazione tra musica e poesia per te?
La relazione tra
poesia e musica è strettissima, lo è sempre stata. Ricordo sempre con piacere
un saggio che da decenni non ho più sotto mano di Giuseppe Cocchiara, un
vecchio studioso italiano del folclore, sulle origini magico-rituali del verso:
filastrocca, formula magica, canto. All’epoca ero molto interessato alla
cultura del carnevale.
Ma per me questa relazione non è solo una questione astratta o intellettuale: è
qualcosa di estremamente concreto, qualcosa che lavora sul senso. Una musica
può avere un senso, ma potrebbe anche non averne. Chi pratica il canto lo sa
bene: tono, equilibrio, visualizzazione fisica, diaframma, respiro. C’è sempre
un lavoro sul corpo e sulla sua collocazione nello spazio.
A proposito di ritmo, mi vengono in mente alcuni readings di Amiri Baraka,
poeta, lui sì, rivoluzionario e afroamericano. Mi viene in mente
l’indimenticabile Carmelo Bene. E naturalmente il caro vecchio Dioniso, sempre
in bilico tra il volo e lo smembramento.
Pensi di poterti completamente esprimere attraverso la poesia?
Non penso esistano
espressioni complete. L’unica totalità è il nostro vivere, il tempo che
scandisce l’esistenza secondo dopo secondo. Questa è una delle poche realtà che
non possono essere riprodotte.
Possiamo però provare a considerare ogni singola espressione, ogni arte, come
una totalità momentanea su cui lavorare. Così, credo, troviamo un modo per
agganciarci al tutto.
È per questo che bisognerebbe riportare l’arte nella quotidianità, e non il
contrario. È un modo per salvaguardare il simbolico: quella dimensione mitica
ed eruttiva che completa — senza sostituirlo — il nostro bisogno logico.
Hai mai pensato di lasciare il mondo dell'arte? Quando e perché e cosa ti ha fatto continuare?
Forse l’ho fatto fin dall’inizio, ma bisognerebbe intendersi su cosa sia il “mondo dell’arte”. Sono una piccola autoproduzione, anche se ho attraversato esperienze artistiche e lavorative di alto livello. Con la poesia, in più, ho pubblicato in decine di fogli, riviste underground e non, blog che ora non esistono più. La logica del click e del valore numerico-quantitativo, figlia diretta del marketing — vera teoria del nostro presente — non mi interessa. Sono felice se qualcuno mi legge o ascolta, ma la vita è breve e non possiamo perdere tempo a contare le posizioni o a creare autorità artistiche che non sempre sono così autorevolmente interessanti. Preferisco costruire comunità di scambio umano e intellettuale, ma tutto sommato non è detto che questo scambio debba concretizzarsi solo nel mondo dell’arte o dell’arte ufficiale.
Che cosa o chi ti ha spinto ad iniziare a scrivere?
Non lo so.
Bisognerebbe chiedersi, più in generale, perché scriviamo o produciamo arte e
simboli. Credo sia connaturato al nostro essere: funzioniamo così, e seguendo
queste forme ci ricongiungiamo a ciò che siamo, a ciò da cui veniamo;
ricordiamo la nostra radice.
Penso alla memoria secondo Giordano Bruno: tecnica, visione animistica. Abbiamo
bisogno di metterci ciclicamente in viaggio verso questa radice per non
dimenticarci. Forse ognuno ha bisogno del proprio Montevideo,
come lo chiamava Campana, grande outsider del Novecento italiano.
La metafora poesia-viaggio è vecchia quanto il mondo. In questa dimensione,
l’altro può essere un intruso o una salvezza. Bisogna solo capire se
dimenticarlo — cancellando l’idea del lettore e concentrandosi sul soggetto — o
mantenere con lui una relazione cosciente: lanciare ponti, non spiegarsi.
Se volessimo scherzare un po’, e giocare all’impossibile, bisognerebbe riunire
Ezra Pound e Brecht in un unico laboratorio di smontaggio, dissacrando tutto il
passato per poterlo riattraversare. Due grandi intellettuali — il primo,
politicamente, molto meno lucido. Come i nostri tempi.
Qui potete trovare un video introduttivo su ProMosaik Poetry;
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